Descartes, Meditazioni Metafisiche, 1641

Tratto, con qualche variazione, da G. Antonelli, Schizzi genealogici psicofilosofici, in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 6, Giovanni Fioriti Editore, Roma, aprile 2008

“Considero inoltre” scrive Descartes “che questa facoltà di immaginare che è in me, in quanto differisce dalla facoltà di concepire, non è in alcun modo necessaria all’essenza di me stesso, cioè all’essenza della mia mente, perché se anche ne fossi privo, non vi è alcun dubbio che io rimarrei nondimeno quello stesso che sono ora”. Attorno a questo disprivilegio dell’immaginazione si declina il reale retroscena di quel “momento cartesiano” di cui parlerà Foucault in relazione (oppositiva) alla questione della cura di sé. A sostenere il retroscena si erge l’equazione cristiana e, prima ancora, stoica. Agostino, ad esempio, non diversamente da Crisippo, faceva dell’immaginazione qualcosa di vuoto. L’imaginatio di Agostino è fallax, inanis, perversa, phantastica, superstitiosa, vacua, vana. Marco Aurelio ordinava di cancellarla. Epitteto, in piena tradizione di àskesis, concepiva il vero atleta come quello che si esercita contro le immaginazioni. Perché questa equazione anti-immaginazione dello stoicismo (che ha improntato di sé l’eone cristiano)? Presumibilmente perché l’immaginazione non è in potere, non soggiace a controllo, non dipende da. Il “momento cartesiano” sembra essere molto di più di quello che ne ha detto Foucault. Ad esso (al prevalere del conosci te stesso sulla cura di sé), nonché al disprivilegio dell’immaginazione, si lega l’argomentazione svolta da Descartes sulla follia (e sul sogno) nella prima meditazione, dedicata alla dimostrazione dell’esistenza di Dio e della distinzione dell’anima dal corpo. Scrive Descartes: “Con quale argomento si potrebbe negare che queste stesse mani e tutto questo corpo sono miei? A meno forse di considerarmi uguale a uno di quei tali dissennati, il cui cervello è così sconvolto dal persistente vapore di una nera bile, che sostengono continuamente di essere re, mentre sono dei miserabili, o di essere vestiti di porpora, mentre sono nudi, o di avere la testa di coccio, o di essere interamente delle zucche, o fatti di vetro; ma costoro sono dementi, e io sembrerei non meno demente, se in qualcosa mi regolassi sul loro esempio”. Il trattamento riservato alla follia (anche messo in relazione con quello riservato al sogno) sarà oggetto di tre pagine dello scritto di Foucault, Storia della follia nell’età classica, che innescheranno un duello con Derrida. Quattro considerazioni per il momento meritano di essere avanzate.

1) Appare oltremodo significativo che, all’esordio delle sue Meditazioni, Descartes avverta pressoché immediatamente la necessità di liquidare la follia. Così come avvertirà la necessità di liquidare l’immaginazione. Le due liquidazioni, ribadisco, si implicano e caratterizzano il “momento cartesiano”, cioè la loro distanza dalla cura di sé.

2) Appare altrettanto significativo che nella prima meditazione si connettano la liquidazione della follia e la diade Dio ingannatore/genio maligno (un argomento teatrale, degno dell’euripideo deus ex machina). E, anche, un argomento che rimonta in ultima anabasi (ma quale anabasi può dirsi ultima?) a Platone. Il quale afferma, ne La Repubblica, che la divinità non inganna katà phantasìas, con le immaginazioni. Non inganna, dunque inganna. Non c’è nulla di più disesistente, una volta che Freud è entrato in scena a dirci di come nell’inconscio venga (non) contemplato il “non”, di quel “non”, appunto. Non si tratta dunque soltanto di Dio, ma dell’immaginazione, di Dio e dell’immaginazione, del Dio che fa le immaginazioni (kyrios epoìesen phantasìas), secondo quanto recita la traduzione greca (nella Septuaginta) di Zaccaria 10.1, traduzione che Filone l’Alessandrino riteneva divinamente ispirata. Un passo, quello di Platone, da far accapponare la filosofica pelle di Descartes. Perché? Perché ha improntato di sé il pensare successivo nonché (e lo vedremo) il pensare cristiano. Perché la storia dell’immaginazione, così riletta, inizia nel segno dell’inganno. E, però, si domandano Platone e Descartes perché la divinità dovrebbe ingannarci? Si domandano perché dovrebbe farlo ricorrendo al medium dell’immaginazione? Forse perché l’immaginazione si presta elettivamente a un tale perverso impiego? Si domandano, infine, Platone e Descartes, dove conduca la presa in carico dell’inganno di Dio? In altri termini, se Dio inganna attraverso l’immaginazione, non è anche perché è attraverso essa che Egli può esistere per l’uomo? Né per Descartes né per Freud Dio può essere quello che era per William Blake: immaginazione. Ma per chi poi, oltre Blake, può esserlo?

3) Va sottolineato il lessico impiegato da Descartes. Parla di “dementi”, Descartes, e sembra adottare un tono non diverso da quello che anche Freud avrebbe adottato parlando dei suoi pazienti, traumatizzando (cioè ritraumatizzando) Ferenczi, come di Gesindel, “gentaglia”.

4) Infine, dal momento che un quarto non manca mai, così come mai mancano la morte o sua santità il sintomo, andrà detto che alle fondamenta, anche aeree, della prescrizione dell’immaginazione si colloca, con forza, sulla anche incognita scia delle tradizioni platonica e stoica (Crisippo in particolar modo), il lascito cristiano. In altri termini, allorché Descartes e Freud prescrivono, mettono al bando, esiliano, l’immaginazione, quasi fossero dei redivivi Tertulliani, stanno facendo cristianesimo. Freud, anche in questo caso, nonostante tutte le apparenze e i presunti e anche pretesi rovesciamenti, ripete Descartes. Ripete Agostino. Ripete il cristianesimo. Il fatto poi che l’immaginazione sia prescritta, esiliata, non significa certo che i due prescriventi, i suoi esilianti in questione (o qualsiasi prescrivente ed esiliante fuori questione) non immaginino o non siano immaginati, che insomma non stiano dentro la Wirklichkeit, l’effettività, dell’immaginazione. La prescrizione dell’immaginazione è in altri termini un atto d’immaginazione. Come ci si può nascondere di fronte a questo sole che non tramonta mai? A questa evidenza? Se Descartes non ha compiuto il passo in direzione della fenomenologia (come gli rimprovera Husserl), ciò non avviene forse in virtù del suo atteggiamento disprivilegiante dell’immaginazione? Freud, s’è detto, ripete in questo Descartes. Ma Freud non è la psicologia del profondo. Così come uno scarto si è consumato nella passe da Montaigne a Descartes, un passe altra si è consumata tra Freud e Jung sulla questione dell’immaginazione, della Einbildungskraft. Ciò che rimane innominato in Freud, diventa tèchne in Jung, diventa immaginazione attiva. Lo stesso motivo per il quale Descartes non compie il passo in direzione della fenomenologia diventa, rovesciato, l’immaginazione attiva di Jung, diventa la willing suspension of disbelief, la volontaria sospensione della incredulità, terminologia – questa di Coleridge – ampiamente anticipatoria della fenomenologia, e pratica, quella dell’immaginazione, che rende lo psicologo naturaliter fenomenologo.

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Giorgio Antonelli