Descartes, Le passioni dell’anima, 1649

Tratto, con qualche variazione, da G. Antonelli, Schizzi genealogici psicofilosofici, in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 6, Giovanni Fioriti Editore, Roma, aprile 2008

“C’è nel cervello” scrive Descartes ne Le passioni dell’anima “una piccola ghiandola in cui l’anima esercita le sue funzioni più specificamente che non nelle altre parti”. Più oltre afferma: “L’ultima o più prossima causa delle passioni dell’anima altro non è se non l’agitazione, dovuta agli spiriti, della piccola ghiandola posta in mezzo al cervello”. Tutto ciò Descartes ritiene di “aver stabilito con evidenza”. Ci sono Dio e la “piccola ghiandola” a tenere insieme res cogitans e res extensa, Io e mondo. Quanto a Dio, però, rimane il sospetto (sia pure fugato) che possa ingannare. Di qui, anche, l’innecessario scandalo della scissione che avrebbe travolto anche Freud e che sarebbe stato ricomposto, sulla scia di Husserl e Heidegger, da Binswanger. O forse necessario, lo scandalo, dal momento che ha saputo generare così tanti racconti. Alla fine non prevale forse il racconto sullo scandalo? E non prevale il racconto perché lo scandalo è esso stesso racconto? Gli anatemi lanciati all’indirizzo di una, presunta, epocale scissione non si traducono anch’essi in altrettanti racconti? E dove, in conclusione e in apertura, prevalgono i racconti in quanto tali? Dove si dilegua ogni duplicante discorso di fondamento e fondazione. La posizione neopragmatista di un Rorty potrebbe essere riassunta nel modo seguente: i racconti prevalgono sui fondamenti, la letteratura prevale sulla filosofia, la contingenza sul sistema, Dickens e Proust su Hegel e Heidegger (e, aggiungiamo, i casi clinici di Freud sulla sua metapsicologia). Il prevalere del racconto poi va inteso come un valere prima, non necessariamente con un valere a prescindere. Il racconto prevale, la filosofia, semplicemente, vale. Se proprio dovessimo fare discorso di fondamento, allora potremmo dire che il valere della filosofia s’innesta nel prevalere del racconto. In ambito psicoterapeutico, analogamente, assistiamo al decostruirsi in racconti di (presunte) fondative interpretazioni. Filosofia e psicologia sono generi letterari. La storia non è da meno (né da più).

Foucault, come s’è detto, ha parlato di un “momento cartesiano” (il riferimento non è soltanto a Descartes) caratterizzato dalla riqualifica del gnóthi seautón (quel conosci te stesso relativo a un soggetto, il soggetto moderno, che è ritenuto capace di verità a prescindere da una pratica trasformativa, di conversione) con annessa sospensione, messa da parte, rimozione, del principio della cura di sé (l’equazione trasformativa, ascetica, spirituale della conoscenza). Nel vuoto lasciato da quella messa da parte (e nel vuoto lasciato dall’esilio della follia) si sarebbe inserita la psicoanalisi, come suggerisce, d’accordo con Foucault, Jacques-Alain Miller, genero di Lacan e curatore dei suoi seminari. In quest’ottica la psicoanalisi ci si presenta, diciamo così, come ritorno del rimosso della filosofia, come occupatrice, abitatrice di una sua zona d’ombra. Una delle tesi portanti delle lezioni di Foucault sull’Ermeneutica del soggetto, lezioni contemporanee del primo insorgere della consulenza filosofica, è appunto che tutta la filosofia occidentale può essere riletta quale “lento affrancamento della questione come e a quali condizioni si può pensare la verità dall’altra questione come e a che prezzo, in base a quale procedura, bisogna cambiare il modo d’essere del soggetto affinché egli acceda alla verità?”. Secondo Foucault, Lacan, essendo stato il solo, dopo Freud, a ricentrare la questione della psicoanalisi intorno al problema dei rapporti tra soggetto e verità (“la questione del prezzo che il soggetto deve pagare per poter dire il vero e dell’effetto prodotto sul soggetto stesso dal fatto di aver detto, di poter dire e di dire il vero su se stesso”), avrebbe provocato la riapparizione, all’interno della psicoanalisi, della tradizione millenaria della cura di sé. Per “platonico” è invece da intendersi, sempre con Foucault, “uno di quei momenti in cui si è verificata la riorganizzazione progressiva di tutta la vecchia tecnologia del sé (da Platone e dai neoplatonici riannodata al conosci te stesso), la quale risulta di gran lunga anteriore sia rispetto a Platone, sia rispetto a Socrate”. In quell’anteriore vanno inseriti, ad esempio, il pitagorismo e lo sciamanesimo. Cosa accomuna, potremmo chiederci dopo Foucault, i momenti platonico e cartesiano? Si potrebbe semplicemente rispondere, impiegando un termine caro a Tertulliano (dunque nel senso dato al termine dal padre africano e includendo nei momenti detti la loro derivazione cristiana): la prescrizione, la messa al bando dell’immaginazione. L’immaginazione è un fondo insostenibile. Riguardo al cogito ergo sum, che a quanto pare costituisce l’alternativa all’immaginazione e che Heidegger avrebbe considerato mancante nel sum (e l’una cosa, il sum, non va senza l’altra, l’immaginazione), Descartes lo vincola in ultima istanza a un Dio che non inganna. Se però, come vuole Lacan, Dio è inconscio (la formula del vero ateismo in luogo dell’altra Dio è morto), allora quel Dio a cui Descartes consegna la (propria) certezza è il massimamente ingannatore. La psicoanalisi scopre insomma che il Dio di Descartes inganna. Prova ne sia che ha ingannato Descartes. Sia pure grammaticalmente, come avrebbe detto Nietzsche e sarebbe stato d’accordo Wittgenstein. Il che, tuttavia, non costituisce necessariamente una confutazione di Descartes. Forse Descartes è segretamente o inconsapevolmente (istericamente) andato a lezione da Gorgia il sofista secondo il quale chi è ingannato è più saggio di chi non lo è. Del resto, non diversamente da Marx o Freud, anche Descartes, come ancora vuole Lacan, è insuperabile. Foucault lega il momento cartesiano alla cifra di originarietà del soggetto. Un soggetto originario e fondamentale è appunto quanto i cosiddetti strutturalisti (Lévi-Strauss, Barthes, Althusser, Lacan, lo stesso Foucault) hanno ricusato. Strutturalismo significa, in quest’ottica, ricusazione dell’originarietà del soggetto. Il soggetto non è fondamentale o originario come ha pensato Descartes. Se Descartes è insuperabile, tuttavia, anche l’originarietà del soggetto, la fondatività del soggetto è insuperabile. Potremmo affermare, seguendo una diversa traiettoria, che il soggetto è originario nella misura in cui è generativo. Potremmo aggiungere che la generatività del soggetto riposa dalle parti di una sua impossibile messa fuori circuito. Potremmo concludere, anche, che tale impossibile messa fuori circuito, nonostante tutti i tentativi in senso contrario, deriva appunto dalla cifra di generatività che compete al soggetto (supposto, cioè posto su, nonostante sia gettato sotto). Potremmo infine riempire questa generatività con il complemento oggetto (caso accusativo) ma anche soggetto (caso nominativo, accadimento nominalistico): racconto. Il racconto genera il soggetto. Il soggetto genera racconti. Appunto perché li genera è insuperabile. Né potrebbe non generarli. Anche messo fuori circuito il soggetto genera racconti. La sua messa fuori circuito è un racconto esso stesso. Lo strutturalismo è un racconto generato dal soggetto. Il momento cartesiano di cui parla Foucault è, dunque, nell’ottica voluta da Lacan, insuperabile. Ovvero, meglio, un insuperabile. Analogamente insuperabile è l’inganno, il trucco, il racconto, diciamo anche: il gioco. Ma, allora, perché lo scandalo? Due risposte. La prima, già data: perché possano generarsi più racconti. La seconda: perché possano generarsi più duelli. I quali ultimi non vanno senza gli altri. Più racconti, ergo più duelli. E, anche, ovviamente, viceversa. Cosa desidera infatti uno che pratica sapere? Uno che pratica sapere desidera duellare con un altro che pratica sapere. Duello di servi? Sia pure. Ma con molto godimento. Che però non significa godere. E, intanto, in un (mal)celato frattempo, viene coperto il deserto. Non secondario, certo, questo coprire, come utile. Sono i veli di pietà di cui parlava Tasso e coi quali, giocando col nome Schleiermacher (Schleier = veli, macher = che fa), ha operato Nietzsche inchiodando i filosofi idealisti tedeschi. Con Otto Rank si potrebbe anche parlare, qui, di un distruggere, decostruire, sospendere la morte uccidendo altri. Sulla scia di un Hegel fenomenologo parecchio ridefinito si potrebbe anche aggiungere, e neanche questa aggiunta è da secondarizzare, che sono i servi, in quanto desideranti, a (credere di) salvare il mondo. Quanto poi a uccidere altri, il gioco è che chi fa sapere uccide sempre un altro che fa sapere che non muore mai. Come se tutti si trovassero, da sempre, internati in (magari gettati a) un inglobante schermo televisivo, un leviatano perfetto, cioè, all’interno del quale a sfilare sono uccisioni apparenti, uccisioni immaginarie accompagnate da altrettanto apparenti e immaginari godimenti. C’è da chiedersi infine perché l’insuperabilità di Descartes non costituisca un’obiezione alla psicoanalisi che pure del filosofo del cogito ha preteso la detronizzazione. C’è anche da chiedersi se il momento cartesiano faccia integrale, operativa parte dell’eone cristiano. Rispetto al politeismo dell’immaginazione il cristianesimo porta nel mondo, dall’inizio, non una morale da schiavi (una semplice copertura, addirittura un semplice ricordo di copertura), ma il reale, monoteistico discorso del padrone (il discorso del padrone, il discorso della bestia trionfante che non conosce spaccio, è monoteistico per definizione). In altri termini Freud ripete Cartesio e Cartesio ripete il cristianesimo. E, del cristianesimo, ripetono ambedue i momenti, cartesiano e freudiano, l’insopprimibile, incontenibile volontà di potenza.

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Giorgio Antonelli