Das erlösende Wort

Estratto

Il filosofo aspira a trovare la parola liberatrice [das erlösende Wort], cioè la parola che ci consente infine di concepire ciò che fino a ora ha gravato, inafferrabile, sulla nostra coscienza. (Wittgenstein)

Il filosofo aspira a trovare das erlösende Wort, la parola liberatrice. Il cabalista aspira a farla vibrare nella sfera superiore per fluire nella divinità, per fare Dio. Ogni parola che una persona pronuncia, buona o cattiva che sia, si legge nello Zohar, l’archetipo scritturale della Kabbalah, produce una vibrazione nella sfera superiore. Il cabalista pratica dunque la vibrazione celeste della parola. La parola fa passe con la sfera superiore, libera la sfera superiore. La rivelazione non è un evento visivo, ma acustico. Appartiene alla phoné, al suono, alla voce che attraversa l’aria. Il poeta libera gli dèi, diceva il trascendentalista Emerson. La parola del poeta (di Hölderlin, in particolare, ma anche di Rilke, di George, di Trakl) fonda la memoria, lascia apparire l’essere, libera il pensiero dalla filosofia, diceva Heidegger che in essa cercava quello che mancava al linguaggio metafisico d’occidente, quello stesso che aveva reso impossibile portare a termine Essere e Tempo. E lo psicoterapeuta? Non aspira anche lo psicoterapeuta a trovare la parola liberatrice, a fare flusso col divino? I due movimenti, poi, non sono il medesimo? Il trovare la parola liberatrice fa di per sé flusso col divino? Non influsso, certo. Se deve valere la lezione di Leibniz, allora la parola non può essere influsso. E dal momento che, come qualcuno ha detto, e c’è da prestargli fede, Leibniz possedeva lo sguardo magico, allora quella lezione, almeno for the moment, va lasciata valere. Allo sguardo magico meglio s’attaglia l’ipotesi, dunque il racconto, della concomitanza, della corrispondenza, dell’armonia prestabilita. Se la parola non fa influsso, però, come fa a liberare?

Con altro linguaggio parliamo di sincronicità. L’effetto della parola (non una parola qualsiasi, la parola immediata, vuota, riempita d’abitudine, addirittura la chiacchiera, ma das erlösende Wort) appartiene, in relazione al flusso dei cabalisti e alle monadi dello sguardo magico, allo stesso ordine della sincronicità. Leibniz pensava all’unione di anima e corpo più o meno in questi termini, cabalisticamente, in termini di flusso o, meglio, in termini di contemporaneità di flussi. Si tratta qui, come la chiama, di “medicina vitale” e di una nuova scienza che assume per la prima volta il nome, e il nome è di tutto anticipante rispetto, di “dinamica”, una scienza che s’origina anche dalla contestazione che Leibniz muove a Descartes del suo rifiuto delle cause finali. In quest’ottica dinamica, dunque, in quest’ottica dallo sguardo magico, il corpo non risponde all’anima soltanto nel caso dei movimenti chiamati volontari ma anche per tutti gli altri movimenti.

I termini dinamici di Leibniz sono riconducibili per via di analogia a quelli che si giocano all’interno del setting analitico. Gioco, e giogo, in virtù del quale il circolo prevale sulla linea di causa e effetto. Se questo gioco-giogo s’impone, e la linearità di causa-effetto è sospesa, allora ne consegue che nessuna parola potrà essere pronunciata dal filosofo, dal cabalista, dal poeta, dallo psicoterapeuta con la certezza di sortire un effetto di liberazione. In altri termini, tenendo conto di quanto precede, non posso affermare di sapere in anticipo, prima del presunto effetto, se la parola che ho in animo di pronunciare libererà l’altro (dai suoi errori, dai suoi ancoramenti, dalla sua scarsa o obnubilata dimestichezza col fluire). Lo posso capire nachträglich, a posteriori, come post-effetto, come visione, presa di contatto con lo small change, il piccolo mutamento di cui, come vedremo, ha parlato estaticamente il poeta metafisico John Donne.

Una considerazione del genere, e cioè se si possa con certezza anticipare l’effetto liberante della parola, manca nella frase di Wittgenstein. Leibniz e Jung parlerebbero, come s’è detto, di concomitanza, di armonia prestabilita, di sincronicità. Leibniz, che negava, considerandola volgare, l’ipotesi dell’influsso, potrebbe ulteriormente declinare la sincronicità di Jung come un essere, le anime, specchi viventi, come un realizzarsi dell’armonia dei due regni delle cause efficienti (che riguardano i movimenti dei corpi) e delle cause finali (che competono alle anime), della capacità degli spiriti di entrare in società con Dio, di via divina attraverso la quale una monade può dipendere da un’altra. Se le cose stanno così, rimane comunque vero che il filosofo, il cabalista, il poeta e lo psicoterapeuta, a dispetto della loro intenzione, non potranno pronunciare la parola liberatrice sapendo in anticipo e con certezza l’effetto che ne sortirà.

Si può però avanzare una diversa ipotesi. L’anticipazione dell’effetto liberatorio della parola ha a che vedere con la capacità del setting analitico di produrre, portar fuori sincronicità. C’è un momento del fare analisi in cui l’aria diventa più attraversabile, il luogo analisi impercettibilmente trasla ad altro, fa transfert con un altro luogo, e aumentano le sincronicità. Un momento in cui si rende palpabile la definizione leibniziana delle anime come specchi viventi. Io parlo, in questo auspicabile caso, di vento forte. Leibniz di forza viva, di tó dynamikón. Parlo di vento forte pensando ai movimenti sottili che attraversano l’aria del setting analitico, nonché al vento che attraversa inascoltato la terra desolata di Eliot. I movimenti sottili (identificazioni, proiezioni, identificazioni proiettive) sono il correlativo “oggettivo” del vento forte. In analisi i movimenti sottili, che sono a loro modo piccole percezioni, diventano massimamente palpabili, respirabili. Se la forza viva, come ritiene il filosofo dallo sguardo magico, è l’unico elemento reale del mondo, allora essa è fatta della stessa sostanza dell’aria, del respiro, dello spirare, dello spirito, del vento forte.

Quando l’aria si fa gravida di sincronicità? Quando la morte entra come quarto dentro l’analisi. Si tratta qui di quello che gli junghiani chiamano fare anima, si tratta dell’accesso a quello che Jung, sulla scia di gnostici e alchimisti, ha battezzato unus mundus. L’unus mundus, ovviamente, c’è lì da sempre, da sempre ci precede, dobbiamo soltanto accedervi

Abstract

“Il filosofo aspira a trovare la parola liberatrice [das erlösende Wort], cioè la parola che ci consente infine di concepire ciò che fino a ora ha gravato, inafferrabile, sulla nostra coscienza.” Questa frase, di Wittgenstein, costituisce il leit motif del presente articolo. Essa viene commentata e interpretata alla luce di ciò che avviene nel setting analitico e con riferimento alle relazioni che intercorrono tra filosofia, psicoanalisi e psicoterapia. Anche lo psicoterapeuta, non meno del filosofo, aspira a trovare la parola liberatrice. Si tratta di stabilire l’oggetto di questa liberazione. Cosa libera la parola liberatrice? La parola liberatrice libera luoghi. Come libera luoghi? Trascendendo confini. L’articolo prosegue mettendo in discussione l’opacità del termine coscienza sia così come esso (il termine) si presenta nel testo di Wittgenstein sia nella considerazione che di essa (la coscienza) ha la psicoanalisi. E, allora, la parola liberatrice libera coscienza, ma lo fa, allo stesso tempo, stando dentro la coscienza. Infine, sulla scorta di una considerazione di Heidegger, la frase di Wittgenstein contribuisce a liberare il senso della scelta operata a suo tempo da Freud di chiamare “psicoanalisi” la nuova disciplina da lui “inventata”.

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