Tratto da: Giorgio Antonelli, “Fare tèchne col silenzio”, in Origini del fare analisi, Napoli, Liguori, 2003
Nunberg lo dice, a suo modo, chiaramente «L’analista è libero e dispone della sua volontà, mentre il paziente deve sottomettersi alle regole psicoanalitiche stabilite dall’analista …. L’analista è silenzioso per la maggior parte del tempo, mentre il paziente gli dice tutto, liberando il contenuto del suo inconscio come se compisse un atto di sacrificio». Sembra trovarsi, Nunberg, in linea con l’ottica socratica così come è stata esplicitata da Proclo nel suo commento al primo Alcibiade di Platone. Perché di questo si tratta nel silenzio, d’un potere che sembra seguire chi lo fa, accadere con chi lo osserva. Ha ragione Chertok a rilevare, nella posizione esplicitata da Nunberg, la presenza d’una suggestione indiretta. Nel senso, per impiegare terminologia à la Ferenczi, d’un insuggerire. Il discorso di Nunberg equivale in altri termine a legare potenza e silenzio. Se c’è silenzio, c’è potenza. L’analista fa silenzio, dunque fa potenza. Il suo fare potenza seduce. Se il paziente fa silenzio, se esprime questa controvolontà, per dirla con Rank, se fa controsilenzio (termine questo piuttosto applicato al fare dell’analista), allora resiste al lavoro analitico.