Adattato da Giorgio Anotnelli, Origini del fare analisi, Napoli, Liguori, 2003
Il metaxù dei greci non è un’esperienza unica. Se parliamo di archetipi, in effetti, parliamo anche di ridondanze, di ripetizioni, di duplicazioni. Gli archetipi ci introducono al mondo dei molti, dei molti centri. Non vale qui il rasoio di Ockham, non vale il canone consacrato dalla Scolastica medievale secondo cui entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. Vale il suo inverso, inverso che troviamo esplicitato in Proclo. Per comprendere la realtà, dal momento che la realtà è teofania, l’unico modo diviene, per questo ultimo filosofo dell’antichità, appunto quello di moltiplicare gli enti: entia sunt multiplicanda ex necessitate. Tale suona la risposta agli dèi ridenti di Zarathustra: la divinità è che ci siano dèi e non un dio . E così il metaxù dei greci trova una sua duplicata dimora presso i filosofi persiani, che in gran parte ai greci si rifanno. Il filosofo persiano Sohravardî (XII sec.), tra gli altri, il sufi andaluso Ibn ‘Arabî (XII sec.), Mollâ Sadrâ (XVI-XVII sec.), grande commentatore di Sohravardî, lo chiamano barzakh. Luogo intermedio, ancora.
Nel suo commento al Libro della Saggezza Orientale, di Sohravardî, Mollâ Sadrâ, sostiene la teoria dei tre universi secondo uno schema che trova numerosi corrispettivi in occidente, a partire dal modello antropologico che sembra costituirne il parallelo, l’analogo, lo specchio che lo fonda, la tripartizione corpo-anima-spirito. La struttura di tutto l’esistente, sostiene Mollâ Sadrâ, si compone, per opera di Dio, dell’aldilà, di questo mondo e del mondo intermedio, il barzakh. La triplice corrispondenza è ovvia. Per questo mondo Dio ha creato il corpo, per l’aldilà ha creato lo spirito, per l’intermondo l’anima. L’anima opera nel barzakh. Quando facciamo anima, se facciamo anima, ci troviamo nella valle di Keats, siamo gettati alle intermittenze, alle epifanie, godiamo dei nostri momenti d’essere, conversiamo coi demoni, dimoriamo nell’intermondo. Ora, questo mondo intermedio è l’immaginale, il mondo autonomo delle immagini. Le quali, per quanto siano in sospensione, non hanno bisogno d’un supporto che ne sia il ricettacolo, non hanno bisogno cioè di sostrato materiale per essere reali. Appartengono a quella realtà che Jung chiama Wirklichkeit. Si noti come sia consonante con i due primi universi dei neoplatonici di Persia la distinzione su cui spesso Jung ritorna tra Realität e Wirklichkeit. Non la realtà della presenza cioè, la realtà della lettera, ma quella degli effetti, la realtà di ciò che adesso esercita effetti su di me e mi fa essere in questo o quel modo.
Wirklichkeit, barzakh: Sorhavardi lo chiama anche il mondo delle forme immateriali che appaiono e lo connota come quello a partire dal quale si realizzano la resurrezione dei corpi, le apparizioni divine, le esperienze visionarie. L’immaginazione attiva rinviene qui uno dei suoi, molteplici, chiari precedenti. La resurrezione, stando a questa tradizione di pensiero, solo può essere spiegata con riferimento al barzakh, al mondo intermedio delle immagini sospese. Solo può essere spiegata facendo riferimento al loro essere luoghi di apparizioni, come spiega Corbin , luoghi dunque, sospesi come in uno specchio. E ancora trova qui un suo analogo, nonché antecedente, il lacaniano stade du miror. Il che sta anche a significare, tra l’altro, (e con l’ausilio degli altri analoghi, degli altri specchi che attraverseranno queste pagine) che la psicologia del profondo è essa stessa una rinascita. Jung l’ha detto a suo modo. Nella psicologia del profondo rinascono lo gnosticismo e l’alchimia, ad esempio. Noi potremmo affermare che una psicologia del profondo, rettamente intesa, è luogo di rinascite, luogo di raccolta per così dire, luogo intermedio nel quale affluiscono da lontano e da meno lontano esperienze e dottrine altre. Non si limita a nascere la psicologia del profondo. Non nasce, o non nasce soltanto, nei laboratori di Wundt o nella Traumdeutung di Freud. Non nasce, tout court, rinasce. Rinasce a partire, ad esempio, dai misteri greci e dal sapere greco, dalle eresie gnostiche e dalle prosecuzioni alchemiche, dal ritorno degli dèi antichi nell’eone rinascimentale, come ci ha spiegato abbondantemente Seznec, dall’esperire romantico di poeti e filosofi. Quanto alle ascendenze persiane, che qui sono anche in discussione, esse si ritrovano in quella psicologia archetipica che, attraverso Hillman, ha convenientemente riconosciuto il proprio debito a Henry Corbin.
La tripartizione affermata da Mollâ Sadrâ, canonica non soltanto per i filosofi persiani, si trova di fatto negata in Descartes, che dualizza in res cogitans e res extensa, spirito e corpo. Corbin fa risalire questa (anche) descartesiana riduzione di orizzonti al secondo concilio di Costantinopoli, che ha avuto luogo nel 553. In effetti uno dei bersagli polemici del Concilio è, in buona compagnia con Ario, Nestorio, Origene e altri meno illustri eretici, Teodoro di Mopsuestia, anatemizzato per aver separato il Verbo di Dio e Cristo, là dove la preoccupazione teologica dei convenuti al concilio appare quella di stabilire una volta per sempre che il Verbo si è unito alla carne secondo l’ipostasi, e cioè che l’unione non implica confusione delle nature e che è unione ferma restando la distinzione delle nature. La preoccupazione riguarda insomma le nature spirituale e carnale, di Dio e uomo. Non sembra esservi posto per l’anima, la terza, l’intermedia. In Teodoro invece troviamo possibili spunti in questa direzione. Questo presunto eretico “ha osato dire”, si trova scritto nel dodicesimo anatemisma, “che dopo la resurrezione il Signore quando soffiò sui suoi discepoli dicendo: Ricevete lo Spirito santo, non diede ad essi lo Spirito santo, ma soffiò solo simbolicamente” . Se dovessimo ricondurre quel “simbolicamente” a un luogo, solo potremmo farlo pensando l’anima, il metaxù, il barzakh. Simbolicamente. Non spirito e non corpo. Simbolicamente. Ovvero, con altri termini, quello spazio intermedio che appare tagliato fuori nell’opposizione descartesiana tra res extensa e res cogitans. Non casualmente un’origine della psicologia del profondo è stata fatta risalire a un rovesciamento di Cartesio. In effetti non di un rovesciamento io ritengo si tratti, quanto di un recupero del terzo luogo. La psicologia rinasce perché l’anima reclama un luogo, il suo luogo. E il suo luogo, chiediamolo anche ai platonici di Persia, non è esteso o “cogitans”, ma si pone in un altrove rispetto a questi.
Corbin, come s’è detto sopra, fa risalire la riduzione di orizzonti, l’appiattimento che nega un luogo suo proprio all’anima, al secondo concilio di Costantinopoli. Io ritengo invece che si tratti di un evento già occorso agli albori dell’eone cristiano, nel suo luogo d’origine, il corpus paolino. In esso la tripartizione apparente “sarchico (carnale) – psichico (animale) – pneumatico (spirituale)” viene di fatto a coincidere con una bipartizione carne/spirito . Il prezzo che il cristianesimo paga per questa operazione delle origini è la sospensione o, meglio, l’esilio, la soppressione dell’anima, del fare anima. Perché? Ho spesso risposto a questo interrogativo in un modo inaccettabile, ritengo, per tutti o quasi gli autori che stanno attraversando queste pagine. E, tuttavia è un modo, il mio, di portare a conseguenze estreme le loro concezioni. A mio parere la tentata soppressione dell’anima ha a che vedere con il timore che l’anima, e cioè i suoi significanti, la sua immaginalità, sospenda la trascendenza. Il timore che il penultimo sospenda eternamente l’ultimo.
Non così, ovviamente, la pensa ad esempio Mollâ Sadrâ. Se tre sono gli universi dispiegati da Dio, tre sono le (ri)nascite. La prima è la nascita dell’uomo sensibile (quella che Rank iscrive nel registro del trauma), la seconda è quella segnata dall’uscita da questo universo sensibile per resuscitare al mondo/intermondo dell’anima. E’ questo il movimento che s’iscrive nel barzakh. Lo stesso che già Ibn ‘Arabî chiama la “resurrezione minore”. E’ qui che vanno collocati quelli che Rank chiama i fantasmi della seconda nascita. Così come Ade, anche il barzakh è luogo transitato da fantasmi, da esseri che appaiono, da “quasi presenze” che non hanno bisogno di appartenere alla nostra realtà, ai luoghi della nostra realtà, per esercitare effetti reali su di noi. Ora, la mia ipotesi, il mio racconto, è che potremmo anche concepire di pensare la sospensione come dato ultimativo e l’eterno stesso come fantasia a partire dall’accesso a questo dato ultimativo. Il che implicherebbe ad esempio l’esistenza della sola resurrezione minore. Esisterebbero dunque, contro i neoplatonici di Persia, soltanto (il che certo non è poco) resurrezioni minori. Fa parte integrante della stessa ipotesi di fondo (ma senza fondo, in realtà) la considerazione che vuole queste resurrezioni essere attingibili in analisi, ma non necessariamente soltanto in analisi. Ed è anche in questo senso che impiego l’aggettivo “minore”, a indicare cioè il carattere potenzialmente quotidiano di quelle resurrezioni. Psicologia delle resurrezioni quotidiane: di questo si tratta. Quanto accade in analisi non è, insomma, in linea di principio interdetto al quotidiano. Perché? Perché anche il quotidiano può essere squarciato dalle ragioni del metaxù, dal fiume sacro, intermittente, di Coleridge, dallo specchio del barzakh, dal risuonare del bardo.
C’è da chiedersi se, anche nel nostro eone cristiano, l’archetipo, per così dire, del luogo di mezzo, nelle sue connessioni con l’immaginazione, abbia fatto sentire la sua potenza. Corbin non sembra propendere per questa possibilità. Nella sua lettura i cristiani dualizzano e dunque dimenticano il luogo di mezzo. Descartes, come abbiamo visto, del tutto in armonia con questa, presunta, Weltanschauung cristiana, dualizza e dunque dimentica l’anima. La psicologia del profondo nasce esattamente là dove s’impone la necessità d’un ritorno al luogo di mezzo. Ci sono stati gli gnostici, è vero. Questo Corbin non lo ignora di certo. La psicologia del profondo, del resto, appare un’incontrovertibile erede dello gnosticismo. Anche in ambito ortodosso, tuttavia, si possono rilevare le tracce profonde del passaggio dell’archetipo. Valga su tutti l’esempio del breve, luminoso scritto di Ugo di San Vittore (XII secolo) De unione corporis et spiritus. Anche qui, apparentemente, si tratta di corpo e spirito. E, però, la loro unione avviene in un luogo terzo, che con Ugo di San Vittore potremmo pensare come, appunto, luogo unitivo, luogo misterico, luogo di coniunctio. A partire dal passo di Giovanni (Gv 3.6) sulla distanza tra carne e spirito, «Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito», Ugo di San Vittore sostiene che non è possibile che lo spirito incontri il corpo e il corpo lo spirito, se ciò non avviene in un medium , in un luogo di mezzo, e questo medium corrisponde, anche secondo Ugo di San Vittore, all’immaginazione. Esattamente quanto abbiamo visto affermare, sulla scia di Sohravardî e dei neoplatonici di Persia, a Mollâ Sadrâ.
A sostegno del proprio assunto Ugo di San Vittore fa riferimento all’ascesa di Mosè al monte e afferma che, se il profeta non fosse salito e Dio non fosse disceso, i due non avrebbero potuto incontrarsi. L’incontro non potendo avvenire dalla parte dello spirito o del cielo o della trascendenza e neanche dalla parte del corpo, della terra, avviene in un terzo luogo, un medium, il monte, l’immaginazione. E ancora fa riferimento Ugo di San Vittore alla scala di Giacobbe che unisce il cielo e la terra. L’immagine della scala (un’altra metafora del medium) ripropone quella, omerica, della catena aurea, analogia che si ritrova in autori come Guglielmo di Conches e Isacco di Stella e ripropone una sorta di continuità immaginale tra paganesimo e cristianesimo. Detto altrimenti il paganesimo risorge nel cristianesimo attraverso il medium immaginale. Il che è tanto più evidente se si pensa alla mediazione neoplatonica del discepolo di Ipazia e successivamente vescovo, Sinesio di Cirene (IV-V sec.).
Anche in Sinesio si ritrova il fondamentale assunto secondo cui esiste un territorio mediano, luogo di dimora dello spirito, nel quale il divino e la materia si incontrano. Sia lui sia Ugo di San Vittore (e insieme a questi altri scrittori cristiani medievali) concepiscono questo luogo intermedio come immaginazione. Non è assolutamente casuale che queste connessioni vengano da Sinesio stabilite nel suo prezioso scritto sui sogni. Del resto anche secondo neoplatonici di Persia e sufi il barzakh rinviene nel sogno la sua più prossima analogia, un’analogia constatabile da parte di tutti, un’analogia afferente al quotidiano e non all’eccezionale, al minore, per così dire, e non al maggiore. Sinesio parla di una zona di “confine comune” tra irrazionale e razionale, tra incorporeo e corporeo. E’ in questo koinós hóros, analogo del barzakh, in questo luogo di confine che il divino può incontrare la materia. E ancora lo chiama, Sinesio, méson, che equivale il metaxù dei greci che l’hanno preceduto e il medium di Ugo di San Vittore .
Consonante con l’assunto di Mollâ Sadrâ e dei neoplatonici di Persia (secondo cui le resurrezioni minori sono possibili soltanto a partire dall’accesso al luogo intermedio, al barzakh), ma anche di Sinesio e di Ugo di San Vittore, si pone il pronunciamento più misterico, a mio parere, che mai Jung abbia espresso in tema di analisi e, anche, di tecnica analitica. Il pronunciamento in questione, che vale il presocratico (a detta di Lacan) analogo freudiano Wo Es war, soll Ich werden (Dove era Es, deve avvenire l’Io), suona: Man wird zu dem, was in der Mitte geschieht , si diventa ciò che accade nel mezzo. Si diventa ciò che accade nel metaxù, nel barzakh, nel barzakh del setting analitico, nel bardo (come vedremo), nella trance, nell’atopìa di Socrate o in quella, altrettanto inlocale, d’una immaginazione attiva. Si potrebbe porre Jung a confronto con Freud a partire dalla riduzione d’universi di cui s’è detto sopra. Nel luogo della dualità Io-Inconscio Jung fa intervenire un medium, non diversamente da quanto hanno fatto greci e neoplatonici di Persia. Man wird, l’uomo si fa, diventa, trasforma. Risuona in quel wird il verto latino, verbo delle trasformazioni, verbo che s’assimila ai prodigi del dio etrusco Vertumno.
La trasformazione, questa analitica resurrezione minore, avviene a partire dall’accesso a un luogo. In der Mitte, scrive Jung. Nel luogo di mezzo. Quello che per i persiani è barzakh, per i tibetani bardo, per i greci metaxù, per Ugo di San Vittore medium, per Sinesio koinós horós, “confine comune”, per Jung si esprime, anche, nel sintagma in der Mitte. E’ ipotizzabile, inoltre, che quando Ugo di San Vittore parla di sublimazione, definita come trasferimento, tramite l’immaginazione, del sensibile in intellegibile, stia sostenendo qualcosa di analogo, o comunque comparabile, alla nozione e pratica junghiana di funzione trascendente. La funzione trascendente avrebbe insomma relazione con un passaggio da luogo a luogo. Un passaggio, una passe, un werden, un vertere, un diatethênai (come vedremo affermare ad Aristotele) verso il medium, il terzo luogo. Non casualmente, ma in profonda consonanza con tutta una tradizione di pensiero che attraversa il mondo occidentale e, come stiamo vedendo, non soltanto il mondo occidentale, Jung la chiama anche “la terza forma”. La terza forma, la scala di Giacobbe, il monte di Mosè, la catena aurea d’Omero e, ancora, il metaxù, méson, medium, barzakh.
Va detto che in questo legare l’universo della resurrezione a quello dell’immaginale, delle immagini, di questi significanti dell’anima, non bisognosi di ricettacolo, come scrivono Sohravardî e Mollâ Sadrâ, reali senza bisogno di essere reali, in questo legare trasformazione e resurrezione, resurrezione e immaginale, è anche presente, con forza, l’orma gnostica. Come potrebbe essere altrimenti? Degli gnostici valentianiani in particolare si tratta, quegli stessi che hanno conferito all’elemento psichico la rilevanza che aveva perso nel sistema paolino. Gli uomini della carne non comprendono le cose dello spirito: tale suona l’interdetto paolino. E quelli dell’anima? Dove sono gli uomini dell’anima? Dove sono gli uomini sospesi? Gli uomini che potrebbero sospendere la trascendenza e, paradossalmente, conferire il solo valore d’un racconto all’assunto cristiano della resurrezione della carne? Gli uomini dell’anima sono stati sospesi nel corpo paolino, nel luogo d’origine del pensare cristiano.